Il colloquio psicologico nel Servizio di Neuropsicologia clinica e nella Memory Clinic

di Michele Lepore e di Crosta Albertodonatello (SCNp)

 

Citazione completa: Lepore M. e di Crosta Albertodonatello (2013). Il colloquio psicologico nel Servizio di Neuropsicologia clinica e nella Memory Clinic. In: Felaco R., Bozzaotra A., Nasti F., Sarno L. (Eds.). Atti del Convegno Colloquio clinico (pp. 218-232). Napoli: Ed. Ordine Psicologi della Campania

 

 

1. La neuropsicologia clinica: definizione e recenti sviluppi

La neuropsicologia è la branca della psicologia che studia gli effetti del danno cerebrale sul comportamento, che possono variare in funzione della sua natura, gravità, localizzazione anatomica e caratteristiche premorbose del soggetto che ne è colpito (Lepore, 2007). Essi possono consistere, ad esempio, in disturbi del linguaggio (scritto e/o orale) o delle abilità spaziali, dell’attenzione o della memoria, delle capacità di pianificazione o di giudizio, del riconoscimento di oggetti o persone. Spesso il deficit si esprime in alterazioni del comportamento e dell’adeguatezza sociale o in disturbi della consapevolezza. La neuropsicologia nasce nella seconda metà dell’800 con i cosiddetti “diagrammisti”, che, a partire dallo studio di casi singoli, cercavano di definire il danno funzionale responsabile del disturbo presentato dal paziente. Tale metodologia (ripresa da Lightner Witmer, vedi paragrafo 3) ha gettato le basi per la neuropsicologia cognitiva. Da allora la disciplina ha sempre avuto, oltre ad una finalità euristica volta a chiarire i meccanismi di funzionamento cerebrale e cognitivo, una vocazione clinico-applicativa. Quando non erano ancora disponibili le moderne tecniche di neuroimaging (Tomografia computerizzata, Risonanza magnetica, Pet, Spect) essa contribuiva anche alla rilevazione ed alla localizzazione del danno cerebrale, ponendosi in tal modo in stretta collaborazione con la neurologia. Con l’avanzamento delle capacità diagnostiche delle tecniche neuroradiologiche è diminuita la sua importanza nel determinare la presenza e la localizzazione del danno cerebrale. Tuttavia l’idea ottimistica che nei primi anni ottanta faceva ipotizzare una relazione lineare tra una data lesione ed il suo correlato comportamentale è stata smentita dai risultati successivi e la neuropsicologia è rimasta cruciale nella valutazione dell’impatto che il danno neurologico ha sul funzionamento cognitivo e comportamentale del paziente (Johnstone et al., 1995). Ma anche la relazione tra deficit neuropsicologico (determinato dal danno cerebrale) e capacità di adattamento quotidiano (e, in ultima analisi, qualità della vita) non è lineare. Numerose, infatti, sono le variabili che modulano l’espressione del deficit neuropsicologico: la personalità premorbosa, l’educazione, l’attività lavorativa, la disponibilità di un ambiente familiare e sociale capace di compensare le disabilità presentate dal paziente, la consapevolezza del deficit, l’umore, la collaborazione agli interventi riabilitativi e, infine, le richieste che pone l’ambiente di riferimento (Johnstone et al., 1995). Il compito del neuropsicologo consiste, dunque, sempre più nell’analisi dell’interazione tra variabili organiche, emotive, relazionali e sociali nel determinare la qualità della vita del paziente, analisi che non può svolgersi ad un livello neuroanatomico e/o neurofunzionale, per quanto sofisticato, ma va condotta all’interno della cornice epistemologica della psicologia clinica. Ciò soprattutto in ambito riabilitativo, poiché la riabilitazione neuropsicologica richiede un’analisi dettagliata dei punti di forza e delle debolezze (cognitive, emotive, relazionali, comportamentali) del paziente e delle risorse del sistema familiare e dell’ambiente sociale più ampio (Lepore, 2002b; Lepore et al., 2008). La neuropsicologia, dunque, presenta sempre più aree di sovrapposizione con altri ambiti della psicologia che si occupano degli aspetti emotivi e comportamentali delle patologie mediche, come la psicologia clinica della salute (clinical health psychology) e la psicologia della riabilitazione, e va estendendo il suo intervento dalla tradizionale valutazione di disabilità cognitive alla valutazione della personalità e delle abilità di vita quotidiana, alla riabilitazione cognitiva, alla gestione dei disturbi comportamentali, fino alla psicoterapia individuale e di gruppo (Prigatano, 1994), allontanandosi sempre più dal ruolo di ausilio strumentale al servizio della diagnosi neurologica, cui, soprattutto in Italia, era stata in parte costretta dalla sua (pur prestigiosa) tradizione sviluppatasi in seno alla neurologia.

 

2. La neuropsicologia come pratica psicologico-clinica

L’”essenza del metodo clinico” è forse ben rappresentata dalla raffigurazione del malato sdraiato con il medico chino al suo capezzale, che ben sintetizza la “relazione individualizzata” e lo “studio longitudinale” caratteristici della medicina del passato e che ancora connotano oggi la psicologia clinica, mentre il progresso della medicina ha trasformato la clinica medica in studio trasversale del paziente eseguito per lo più con tecniche di laboratorio, rendendo così superflua anche la componente relazionale (Imbasciati, 2006). Questa trasformazione tecnologica della medicina ha coinvolto in parte anche la pratica neuropsicologica, che l’organizzazione sanitaria ha tentato di assimilare ad uno dei tanti esami tecnici di laboratorio che contribuiscono a fornire i dati utili alla formulazione di una diagnosi neurologica. Anche da un punto di vista amministrativo le prestazioni del neuropsicologo sono state adeguate a tale concezione, con nomenclatori che prevedono la richiesta (ed il rimborso) di specifici test psicometrici e/o di un certo numero di sedute di riabilitazione cognitiva, spesso eseguite da tecnici della riabilitazione (Napolitano, 2001). Purtroppo la necessità occupazionale, spesso drammaticamente avvertita dagli psicologi italiani, ha portato molti ad adeguarsi, unitamente ad altri fattori che proveremo ad analizzare più avanti. Tuttavia la pratica neuropsicologica mal si presta a questa forzatura, soprattutto se si considera l‘evoluzione che, come abbiamo visto, la sta caratterizzando. Sebbene alcuni aspetti del lavoro neuropsicologico possono alimentare l’equivoco che lo assimila ad una prestazione di laboratorio, non ci sono dubbi che esso si configura come attività clinica, ed i test psicometrici e/o le tecniche riabilitative (soltanto una parte degli strumenti utilizzati) non possono essere sottratti dal contesto clinico (più specificamente psicologico-clinico) in cui vengono applicati.

Può essere utile qualche esempio per meglio chiarire ed argomentare queste affermazioni. In ambito strettamente diagnostico, sono sempre più frequenti i casi di persone appena pensionate che confondono la riduzione dell’efficienza cognitiva prodotta da una reazione depressiva con i sintomi di un’incipiente demenza. Oppure, di coppie che, dopo il matrimonio dell’ultimo figlio, si ritrovano a confrontarsi con conflitti irrisolti che uno dei coniugi tende ad attribuire a cambiamenti di carattere del partner, interpretati come l’effetto di un disturbo neurologico. O, ancora, di persone anche giovani che, poste di fronte a conflitti intrapsichici o anche a situazioni relazionali complicate, interpretano i propri insuccessi a risolvere tali nodi come la conseguenza di un disturbo neurologico. E’ esperienza comune per chi si occupa di neuropsicologia clinica osservare come nella pratica quotidiana si stia assistendo ad un incremento di casi di “disturbo fittizio” e di “disturbo di conversione”, che si manifestano con riferite disfunzioni cognitive (per un’analisi dei metodi di diagnosi differenziale si veda Lepore, 2009), forse anche per l’attenzione che i media stanno rivolgendo alla neuropsicologia ed alle neuroscienze in generale. Questi esempi chiariscono come anche l’esame neuropsicologico deve prendere le mosse dall’analisi dei motivi che hanno portato alla consultazione e dall’individuazione del referring (l’inviante). Infatti, se è vero che spesso la richiesta esplicita di valutazione neuropsicologica proviene dal medico (ma sempre più frequentemente il paziente si rivolge direttamente allo psicologo) con il quesito di verificare e quantificare la presenza di disturbi cognitivi, molte volte le lamentele soggettive del paziente o di un suo familiare nascondono richieste di aiuto psicologico espresse in maniera confusa. In tali casi un esame tecnico evidenzierebbe semplicemente l’assenza di rilevanti danni cognitivi, limitandosi a consegnare un risultato strumentale negativo ed a comunicare al paziente e/o al medico inviante l’assenza di patologia, senza modificare la situazione di malessere denunciata dalla richiesta. Invece, da un punto di vista psicologico-clinico il risultato strumentale rappresenta il punto di partenza per una restituzione psicologica complessa, con l’obiettivo più ampio di ristrutturare la rappresentazione del paziente (o dei pazienti) delle proprie difficoltà, ponendo le basi per una loro possibile soluzione.

In altri casi può accadere che in pazienti con morbo di Alzheimer la depressione che accompagna spesso le fasi iniziali di malattia, resa possibile dalla risparmiata consapevolezza che il paziente ha delle proprie difficoltà, esacerbi le difficoltà cognitive prodotte dal disturbo (cosiddetta excess disability). O ancora, in pazienti afasici può accadere che emozioni quali la rabbia (ad esempio nell’afasico di Broca, derivante dalla frustrazione prodotta dall’incapacità a produrre il messaggio desiderato) o la paura (ad esempio nell’afasico di Wernicke, derivante dall’incapacità di attribuire al proprio disturbo, di cui è inconsapevole, il fallimento dei tentativi di comunicazione) rappresentano una reazione emotiva al deficit neurocognitivo e contribuiscono a peggiorare le capacità comunicative del paziente (o producono reazioni comportamentali che deteriorano le relazioni con i familiari). Alcuni disturbi comportamentali, infine, osservati in pazienti affetti da importanti deficit cognitivi (ad esempio gravi dementi o traumatizzati cranici) possono derivare dall’interazione tra le ridotte abilità di problem-solving (prodotte dal danno neurologico) e richieste ambientali inadeguate, cui il paziente reagisce in maniera disadattiva. In tutti questi casi, in cui si è in presenza di un conclamato disturbo neurologico che produce in maniera diretta i deficit cognitivi, l’obiettivo del neuropsicologo è di valutarne l’interazione con altre variabili psicologiche ed ambientali che ne influenzano e ne modulano l’espressione comportamentale. Il riconoscimento del ruolo svolto da queste variabili (emotive e relazionali) può contribuire a migliorare la qualità della vita del paziente e della sua famiglia.

Vi sono, poi, quelle situazioni in cui la richiesta che viene posta al neuropsicologo non consiste nel verificare la presenza del danno cognitivo, già evidente, ma nel predire il funzionamento del paziente in particolari situazioni, quali ad esempio l’ambiente di lavoro o a casa, per poter pianificare il suo reinserimento o una migliore gestione delle sue difficoltà. Anche in tali casi la considerazione di variabili non strettamente cognitive (né individuali) diventa cruciale. Infatti il risultato ai test non permetterebbe, da solo, tali previsioni, ma va piuttosto considerato come il danno emerso in laboratorio si manifesterà in particolari situazioni, valutando quindi le caratteristiche psicologiche premorbose, le risorse ambientali, gli aspetti emotivi, la consapevolezza delle proprie difficoltà, la collaborazione, e le richieste situazionali (abilità sociali e cognitive) (Johnstone, 1995).

Ne deriva che gli strumenti del neuropsicologo non possono essere limitati a quelli psicometrici, ma comprendono innanzitutto il colloquio clinico, la raccolta di un’anamnesi comportamentale (la cui accuratezza dipende molto dalla capacità del clinico di far emergere le informazioni) centrata non solo sul sintomo (insorgenza ed evoluzione), ma anche su informazioni quali i cambiamenti nella vita quotidiana del soggetto e le ricadute prodotte all’interno del sistema familiare, il colloquio con i familiari (per valutare il problema all’interno delle dinamiche familiari), l’osservazione comportamentale. Quest’ultima è cruciale, inoltre, per correlare i dati psicometrici al funzionamento ecologico, per rilevare eventuali artefatti ai test e per apprezzare il funzionamento integrato delle diverse abilità cognitive e delle caratteristiche emotive e relazionali del paziente all’interno di una relazione interpersonale.

Si comprende, quindi, come sia inadeguata l'idea (e la prassi) di considerare la valutazione neuropsicologica una sorta di esame strumentale di laboratorio, con la somministrazione da parte dello psicologo di specifici test. Tali richieste sono spesso di per sé impossibili da soddisfare, o quantomeno inutili, poiché anche la scelta delle prove da utilizzare non può prescindere dall’inquadramento psicologico-clinico del paziente. Le richieste devono piuttosto indicare il quesito che l’inviante pone al neuropsicologo, la cui indagine si configura come consulenza clinica che si avvale degli strumenti che lo psicologo ritiene opportuni. Anche la somministrazione dei test si configura come attività clinica perché, se è vero che essi consistono in un'indagine standardizzata, è pur vero che l’atteggiamento dell’esaminatore e, più in generale, il setting relazionale debbono essere adattati alle caratteristiche psicologiche del paziente: un atteggiamento oppositivo o un’eccessiva ansia da prestazione dell'esaminando, ad esempio, possono produrre una prestazione cognitiva scadente e l’osservazione qualitativa del comportamento e degli errori commessi rappresentano importanti fonti di dati, spesso più significativi degli stessi punteggi al test (senza contare la loro importanza nel segnalare un possibile atteggiamento di simulazione a scopo assicurativo o pensionistico, sempre più frequente tra i soggetti inviati per esame neuropsicologico). L’interpretazione dei risultati, infine, è un processo tutt’altro che automatico: va evitata un‘analisi “test-dopo-test“, attribuendo meccanicamente ad ogni punteggio il significato che la natura della prova lascerebbe dedurre, ma va considerato il complesso sistema di fattori in gioco, integrando le diverse fonti di dati (test, osservazione, anamnesi) in un’interpretazione che ricostruisca l’intera configurazione e che tenga conto degli scopi della valutazione, del quesito posto e della domanda psicologica implicata. Purtroppo spesso la formazione all'utilizzo dei test neuropsicologici viene intesa come apprendimento di procedure rigidamente applicabili ed automatizzate e per ciò di facile e rapida acquisizione.

Se si passa a considerare, poi, le applicazioni riabilitative della neuropsicologia, gli esempi diventano anche più numerosi. L’idea semplicistica che la semplice esecuzione di esercizi di ripetizione fosse sufficiente a ripristinare (restoration) una funzione danneggiata si è scontrata con numerosi fallimenti empirici. Sul piano teorico, inoltre, è aumentata la consapevolezza che la sola considerazione degli aspetti cognitivi del disturbo, interpretati attraverso i modelli modulari, non sempre conduce automaticamente ad un progetto riabilitativo. Innanzitutto tali modelli non specificano sufficientemente le operazioni svolte dai moduli danneggiati (problema dell’empty box); poi i meccanismi di riapprendimento delle funzioni danneggiate non sono sufficientemente chiari (Baddeley, 1993; Lepore, 2002); infine, va considerato il ruolo, spesso cruciale, dei fattori non modulari, quali attenzione, motivazione, aspetti emotivi e relazionali (Robertson e Murre, 1999).

Questi modelli, quindi, spesso non riescono né a formulare diagnosi specifiche seguite da interventi mirati, né a rispondere ai bisogni peculiari dei pazienti, soprattutto nella prospettiva a lungo termine di un reinserimento psicosociale e lavorativo (Lepore, 2001). Gli inevitabili fallimenti pratici che ne conseguono pongono l’esigenza di una valutazione psicologica del paziente, che tenga conto dei suoi peculiari punti di forza e di debolezza, e delle risorse presenti nello specifico contesto ambientale, comportando la necessità di prendere in considerazione, nella progettazione dell’intervento riabilitativo, anche interventi comportamentali e psicoterapici (sia individuali che familiari). Il modello olistico in riabilitazione, riconosciuto in ambito internazionale (Trexler et al., 1994), risponde a queste necessità integrando gli aspetti cognitivi, emotivi, sociali e funzionali in programmi di trattamento basati non solo su esercizi di rieducazione cognitiva, ma anche su terapie cognitive di gruppo, psicoterapia individuale e di gruppo (Prigatano, 1994), addestramento di abilità ecologiche, programmi di reinserimento sociale e lavorativo, fino ad includere attività fisiche che superano il tradizionale approccio fisioterapico (Rasmussen, 1994). La demedicalizzazione di tali interventi, inoltre, favorisce l’assunzione, da parte del paziente e dell’ambiente di riferimento, di un ruolo attivo, con maggiore focalizzazione sulla qualità della vita e sulle strategie di adattamento alle condizioni ambientali (compensation) (Wilson e Patterson, 1990; Wilson, 2000). Va notato come, anche in questo caso, le prassi amministrative ostacolano questa filosofia di intervento, se ad esempio si considera che la riabilitazione viene spesso fornita sotto forma di un numero prescritto di sedute riabilitative cui partecipa il solo paziente (Christensen, 2000).

 

3. Una singolare circostanza : la nascita della psicologia clinica ed i pazienti di Witmer (1907)

La neuropsicologia, dunque, si configura sempre più come pratica psicologico-clinica. D'altra parte neuropsicologia e psicologia clinica sono strettamente interconnesse da circa cento anni, come dimostrato da una singolare circostanza. La prima rivista di Psicologia Clinica, Psychological Clinic, apre il primo numero, nel 1907, con un articolo introduttivo del suo fondatore, Lightener Witmer, che, per illustrare l’operato della “clinica psicologica” condotta presso il laboratorio di psicologia dell’Università di Pennsylvania, esordisce con il racconto di un caso clinico. Si tratta di un bambino di dieci anni che, presentando una difficoltà di apprendimento scolastico, in assenza di deficit fisici o intellettivi che potessero spiegarle, poneva la necessità di distinguere l’effetto di un disturbo dello sviluppo cerebrale dal risultato di metodi educativi inadeguati. Witmer afferma che questo è “inequivocabilmente un caso da psicologo”. Ancora più interessante è il secondo caso descritto nello stesso lavoro: un ragazzo che presentava un marcato deficit nella lingua inglese, sia parlata che scritta, che consisteva in una difficoltà specifica nella discriminazione delle parti finali delle parole che veicolano informazioni morfologiche, quali il numero (singolare/plurale), il tempo dei verbi, la funzione grammaticale (aggettivo/avverbio). Witmer interpreta il disturbo come l’effetto di una “sordità verbale”, che avrebbe impedito al ragazzo di discriminare i suoni finali delle parole, e di un associato (o, forse, nell’ipotesi dell’autore, primario) deficit articolatorio. Le difficoltà nella lingua scritta sarebbero dipese da tali disturbi principali. Conseguentemente a tale ipotesi interpretativa, Witmer sottopose il ragazzo ad un addestramento specifico delle abilità articolatorie e della discriminazione uditiva verbale, ottenendo un grande miglioramento dei sui elaborati scritti, che gli permisero, così, di essere ammesso all’università. Sebbene le ipotesi interpretative di Witmer possano oggi sembrare grossolane ed ingenue (sarebbe interessante una re-interpretazione del caso clinico alla luce delle attuali conoscenze, che sembrano indirizzare verso un deficit di natura grammaticale), è sorprendente come il metodo di analisi utilizzato precorra quello poi adottato dalla neuropsicologia cognitiva (Lepore, in preparazione). Naturalmente il miglioramento nelle abilità di scrittura potrebbe essere ascritto ad un effetto aspecifico del trattamento, ma, ancora una volta, è degno di nota il rigore metodologico per cui l’intervento riabilitativo discende coerentemente dal modello del disturbo ipotizzato (Riddoch & Humphreys, 1994). Ciò, soprattutto se si pensa che ancora oggi è necessario spesso esortare gli operatori ad una tale prassi, evitando interventi ateoretici (Grossi e Lepore, 2002; Lepore, 2001).

Come ricorda Vitelli (2007) la data inaugurale della psicologia clinica è indicata nel 1896, anno in cui Witmer fondò la prima clinica ed inaugurò il primo insegnamento di Psicologia Clinica (Università di Pennsylvania) cui seguì, appunto, la prima rivista nel 1907. L’attività della “clinica psicologica” condotta presso il laboratorio di psicologia dell’Università di Pennsylvania e l’articolo introduttivo del fondatore della rivista rappresentano quindi i presupposti storici della disciplina (si veda l’interessante lavoro di Vitelli per una riflessione sugli a-priori storici della psicologia clinica e sulle loro attuali implicazioni, condotta proprio a partire dall’articolo di Witmer) ed è suggestivo constatare che entrambi prendono le mosse da interventi clinici che oggi definiremmo “neuropsicologici” (diagnostici e riabilitativi). Ciò impone, a distanza di un secolo, una riflessione sul rapporto attuale tra neuropsicologia e psicologia clinica, cento anni fa così strettamente interconnesse.

 

4.“Fuga dalla psicologia” ovvero “rifugio nella tecnicalità”: rischi per la pratica professionale e la formazione dello psicologo in ambito neuropsicologico

La pratica clinica neuropsicologica, dunque, condivide con la psicologia clinica le caratteristiche principali e le origini storiche. Se è vero che la neuropsicologia si occupa di soggetti con un danno organico e che quindi per molti aspetti si prestano ad un inquadramento nell’ambito del modello medico (con le sue caratteristiche di trasversalità diagnostica, precostituzione della nosografia, separazione tra diagnosi ed intervento e transitività della terapia; Imbasciati, 2006), tuttavia l’atteggiamento epistemologico, l’approccio operativo ed il metodo di lavoro del neuropsicologo non condividono (o non dovrebbero condividere) queste caratteristiche, mantenendo piuttosto l’adesione ad un approccio clinico nel suo significato originario. E’ però vero che una serie di motivi mettono continuamente a rischio l’approccio psicologico al lavoro del neuropsicologo, rappresentando quotidianamente delle spinte (o attrazioni) verso il modello medico. Ad essi abbiamo già accennato. Alcuni sono di origine storica, che hanno determinato lo sviluppo, soprattutto in Italia, di una neuropsicologia come pratica di laboratorio al servizio della neurologia. Altri sono di natura culturale. Da un lato l’eziologia organica del disturbo primario ha erroneamente indotto a ritenere in generale la neuropsicologia una specialità medica. Dall’altro, questa concettualizzazione è stata di fatto accettata dagli stessi psicologi producendo un rifiuto ed una scarsa considerazione della disciplina, accrescendo così il divario tra psicologia clinica e neuropsicologia e costringendo per lungo tempo gli psicologi che lavorano in ambito neuropsicologico ad una sorta di isolamento dalla comunità professionale di appartenenza. Infine, vi sono motivi politico-amministrativi che hanno portato a sviluppare prassi operative coerenti al modello medico che domina la scena della politica sanitaria. Quindi è stata prevista la prescrizione e gestione da parte del medico di una serie di interventi parcellizzati e meccanici quali la “somministrazione di test neuropsicologici” e “sedute di riabilitazione cognitiva”. Ma il rischio attuale di medicalizzazione della neuropsicologia clinica è forse prodotto soprattutto dal processo di formazione dei giovani psicologi, in maniera sostanzialmente analoga (ma accentuata) a quanto osservato da Imbasciati (2006) a proposito della psicologia clinica in generale. Come è stato osservato, infatti, si assiste “in questi ultimi anni ad un progressivo emergente e sommergente attribuzione di valore […] a quegli studi psicologici che operano in laboratorio, in collegamento con la biologia, la neurologia, la fisiologia, in genere le neuroscienze […] mettendo in ombra l’importanza di quelle altre discipline che operano, non tanto in laboratorio, ma “sul campo”, e sul vivo delle persone, e dei gruppi […] e soprattutto tale emergenza svalorizza le discipline che comportano la presa in carico, effettiva e continuata, di persone.”(Imbasciati, 2006, p.39). La neuropsicologia clinica sta risentendo maggiormente di questo fenomeno, con l‘effetto di una crescente assimilazione alle discipline da laboratorio. Molti studenti e tirocinanti di psicologia credono di rinvenire nella neuropsicologia una comoda scorciatoia verso la più semplice, lineare, deresponsabilizzante e rassicurante pratica di laboratorio. Da un lato vi è, in linea forse con il generale orientamento culturale della società, l’ambizione a beneficiare del prestigio riflesso che la medicina può elargire, dall’altro, soprattutto, la scelta di un percorso formativo apparentemente più semplice, limitato all’acquisizione di procedure di laboratorio e di tecniche da applicare meccanicamente, delegando qualcun altro alla gestione del processo. La crisi occupazionale e la progressiva estinzione degli psicologi dal Servizio Sanitario Nazionale facilitano una pericolosa collusione, con schiere di volontari psicologi impiegati come "testisti" in strutture che operano secondo modelli che rafforzano una prassi neuropsicologica di tipo laboratoristico-strumentale, allontanandoli dalla tradizione psicologico-clinica. Questa collusione produce a sua volta una svalorizzazione della disciplina, delle sua complessità e della sua autonomia. E, cosa ancora peggiore, produce tra gli stessi psicologi clinici una scarsa considerazione della disciplina, accrescendo così il divario tra psicologia clinica e neuropsicologia in origine così strettamente interconnesse.

 

5. Bibliografia

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